La poesia più efficace è quella che corre tra l’essenza della nostra esistenza. Come quella che scrive Goffredo Parise nei suoi sillabari.

Se oggi vi parlo dei Sillabari di Parise è prima di tutto perché ho appena finito di rileggerli, riprendendoli in mano dopo tanto tempo. O meglio, ho appena finito di riascoltarli dalla bellissima voce di Nanni Moretti, edito da Emons. Sì un audiolibro perché anche se già conoscevo la forza poetica di Goffredo Parise, oggi ho scoperto che la lettura ad alta voce di uno dei più bei libri della nostra contemporaneità, gli rende ancora più giustizia.

Quando Goffredo Parise scrive i Sillabari, la sua fonte di ispirazione era stata – a suo dire – un bambino, incontrato per strada, che teneva stretto, sotto il braccio, un sillabario. Uno di quegli strumenti in cui ogni lettera veniva presentata nella propria semplicità, in associazione ad una immagine univoca, che ne definisse il senso e la grammatica. A di aeroplano, B di bambola, C di cane…e via discorrendo.

Così, nel 1971, in un’epoca in cui il nostro paese sembrava aver dimenticato il concetto di semplicità e di essenziale, dove la verbosità faceva da padrone e gli scontri era all’ordine del giorno, Parise vede in quel sillabario la risposta ai suoi perché. O almeno, una delle risposte possibili. E comincia a scrivere, un racconto per ogni lettera, ricostruendo un proprio sillabario che fosse in grado di creare una corrispondenza univoca tra lettera e sentimenti umani. Si tratta di racconti pubblicati, a partire dal 1971, sul Corriere della Sera e poi raccolti in due volumi, Sillabari n.1, del 1972, con la raccolta dei primi 22 scritti dal 1971, edizioni Einaudi;  Sillabari n.1, con gli altri, 32 racconti, scritti dal 1973 all’198 ed editi da Mondadori.

A come Affetto, Allegria, Amore. B come Bacio, Bambino, Bellezza e così via, sino alla S di Sesso, Simpatia, Sogno, Solitudine. Sono tutti racconti di quotidianità, di sentimenti, di abitudini e di pensieri, in cui facilmente possiamo ritrovarci, non tanto per le situazioni narrate, ma per gli stati d’animo provati dai suoi personaggi. I suoi sono prima di tutto raccolte di luoghi, di personaggi, di stati d’animo e di situazioni, anche di microcosmi. E sono racconti che raccontano, che rendono possibile il racconto del nostro mondo, in una reductio ad unum in cui l’unico a sopravvivere è il nostro sentire.

Parise si spoglia dei vestiti della complessità, delle dinamiche involute delle sovrastrutture sociale in cui si trova immerso, per ritornare all’essenza degli stessi sentimenti. Essenza che, in lui, si traduce in vera e propria poesia in prosa.

Non finirà mai il suo sillabario perché, ad un tratto, quella stessa poesia che lo aveva animato nella loro stesura,  lo abbandonò all’improvviso, come lui stesso afferma nell’avvertenza dell’edizione completa del 1982. Ma rimangono a noi delle opere microcosmiche in cui poter ritrovare l’essenziale (o l’universale).

Nella vita gli uomini fanno dei programmi perché sanno che, una volta scomparso l’autore, essi possono essere continuati da altri. In poesia è impossibile, non ci sono eredi. Così è toccato a me con questo libro: dodici anni fa giurai a me stesso, preso dalla mano della poesia, di scrivere tanti racconti sui sentimenti umani, così labili, partendo dalla A e arrivando alla Z. Sono poesie in prosa. Ma alla lettera S, nonostante i programmi, la poesia mi ha abbandonato. E a questa lettera ho dovuto fermarmi. La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi e non ha discendenti. Mi dispiace ma è così. Un poco come la vita, soprattutto come l’amore.