Si parla tanto della serie TV e noi, oggi, leggiamo e vediamo insieme “Il nome della Rosa”.

Recensire Umberto Eco non è cosa facile, ed ecco perché, quella di oggi, non sarà una recensione. Il Il nome della rosa è un libro su cui molti hanno scritto, e fu anche, del nostro maestro, uno scherzo letterario “sopravvalutato”, come diceva lo stesso Eco. Oggi, però, voglio raccontarvi un’altra storia, quella di un regista che, come gli antichi copisti, prese in mano non il libro scritto da Eco, ma un palinsesto dello stesso romanzo, ovvero un’altra storia, per raccontarla a suo modo. Perché è giusto, come diceva lo stesso Eco, che ognuno abbia la propria vita: film e romanzo.

Umberto Eco pubblica per Bompiani Il Nome della Rosa nel 1980. Il suo è quasi uno scherzo letterario, una storia ben orchestrata ma che, paragonata ai suoi romanzi, sembra quasi un esercizio accademico nella cui trama e struttura ravvisiamo ancora gli schemi narrativi degli “appunti” presi dall’autore. Uno scherzo accademico, anche se un magistrale scherzo accademico, perché tutto, nello svolgimento del testo, sembra essere al posto giusto: dalla sequenza degli eventi, sino agli espedienti narrativi ideati affinché il metodo di indagine deduttivo filasse dritto sino alle conclusioni finali. Alcuni hanno definito questo romanzo come un feuilleton, al pari di quelli scritti da Alexander Dumas. Ed in effetti, se analizziamo bene le trovate narrative, ci rendiamo conto prima di tutto che a comparire è proprio l’autore. Eco ha scritto un testo che, per sua stessa economia narrativa, si regge da solo, ha una struttura solida e forte ed una molteplicità di livelli di lettura tale da rendere la complessità bastevole a sé stessa. Eco non ha bisogno di intervenire mai a livello narrativo, così come Dumas non lo fa mai ne I tre moschettieri..

“Un sogno è una scrittura, e molte scritture non sono altro che sogni.”

Passano cinque anni prima che Jean-Jacques Annaud dia il via alle riprese del film de Il nome della rosa, dando il primo ciak. È ’11 novembre 1985 e le riprese finiranno esattamente 16 settimane dopo. Il cast è scelto con attenzione: Sean Connery è Guglielmo da Baskerville. F. Murray Abraham è Bernardo Gui, Fëdor Fëdorovič Šaljapi è Jorge da Burgos, Ron Perlman è Salvatore, Christian Slater è Adso da Melk.
Annaud, nei titoli di testa non fa inserire la dicitura “liberamente tratto da…”, ma una precisa dicitura: “tratto dal palinsesto del…”. Questa posizione è presa deliberatamente dal regista francese, tanto che, per contratto, Umberto Eco aveva il diritto di vedere in anteprima il film e di decidere liberamente di lasciare il proprio nome nei credits della pellicola.

Ma perché vi racconto questo? Perchè, come vi anticipavo, il film di Annaud non è una riduzione, né una trasposizione del romanzo di Eco. Non dobbiamo, infatti, metterci a guardarlo alla ricerca delle differenze e delle simiglianze con il testo. Non dobbiamo neppure guardarlo nell’ottica di vedere un’altra chiave di lettura del testo di Eco. Bensì, dobbiamo guardarlo esattamente come si guarderebbe antico un palinsesto: il testo originario è lì, sotto le altre trascritture, si mischia a queste, si unisce e si fonde; a tratti riemerge ma, in buona sostanza non c’è più.

I caratteri dei personaggi cambiano, come quello di Bernardo Gui, dipinto come un crudele inquisitore domenicano nel film, la cui pena gli viene inflitta con la morte, nel libro di Eco, invece è quasi stimato da Guglielmo e non muore affatto. Allo tesso modo, la giovane innamorata di Adso, che nel film ricompare sul finale, nel libro invece finisce arsa sul rogo insieme agli eretici. E, sempre in tema di punizioni, la scena dell’esecuzione degli eretici non viene mai descritta da Eco, ma diventa una scena fulcro del climax drammatico nella pellicola di Arnaud. Ma più di tutte, quelle che il regista fa diventare un côtè narrativo, sono le discussioni teologiche e filosofiche tra tutti i personaggi. Discussioni che in Eco rappresentano, invece, il fulcro della narrazione stessa, uno dei livelli possibili di lettura, la narrazione di un momento storico drammatico per la Chiesa e per la nostra storia di fedeli. Quello che crea Arnaud è un bel giallo storico, che procede stingente nel circolo di deduzioni che Guglielmo e Adso seguono e traggono durante la loro inchiesta, così come era anche il libro di Eco. Ed, ancora una volta, il film sembra il romanzo ma non lo è del tutto.

E non è un caso che a fare un’operazione delicata come questa, inusuale per un’epoca di “copioni” come la nostra, sia un regista che è a sua volta un maestro e che ha realizzato pellicole come Due Fratelli, Sette anni in Tibeto L’ultimo lupo. E questo stesso atteggiamento ha permesso alla sua pellicola di vivere a prescindere dal grande romanzo di Eco. La sua volontà formale, gli ha permesso di creare un film perfetto e concluso.

Così, quando parliamo del Nome della Rosa, possiamo pure dire che esistono due capolavori, uno narrativo ed uno filmico, uno nato dalla penna di Umberto Eco e l’altro creato dalla macchina di presa di Jean-Jacques Annaud. Entrambi indipendenti, seppur legati in modo indissolubile tra loro.

“Tu sei il diavolo” disse allora Guglielmo.
Jorge parve non capire. Se fosse stato veggente direi che avrebbe fissato il suo interlocutore con sguardo attonito. “Io?” disse.
“Sì, ti hanno mentito. Il diavolo non è il principe della materia, il diavolo è l’arroganza dello spirito, la fede senza sorriso, la verità che non viene mai presa dal dubbio. Il diavolo è cupo perché sa dove va, e andando va sempre da dove è venuto. Tu sei il diavolo e come il diavolo vivi nelle tenebre.”

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